DIRE IL MASSIMO CON IL MINIMO

La comunicazione al servizio dell’apprendimento

PARALYSIS BY ANALYSIS

É stata definita così da tanti autori. La “paralisi”, ovvero l’incapacità di agire, di decidere prontamente, di focalizzare l’attenzione sulle caratteristiche determinanti dell’ambiente circostante, indotta “dall’analisi”, ovvero dall’eccessiva richiesta a cui viene sottoposta la nostra memoria a breve termine, con un numero troppo elevato di informazioni e/o con informazioni che impediscono un ottimale sviluppo dell’abilità motoria.

Noi disponiamo di una limitata quantità di attenzione che possiamo assegnare alle attività che svolgiamo, e se proviamo ad andare oltre questa disponibilità, falliamo” (Kahneman, D. Thinking, Fast and Slow. New York: Macmillan, 2011.)

Questa citazione ci porta a dover considerare davvero cruciale non solo la modalità con la quale comunichiamo ai nostri giocatori, e quindi alla qualità dell’informazione che vogliamo trasmettere, ma anche alla quantità.

LE TRE VIE DEL FALLIMENTO

Nik Winkelman, esperto internazionale di apprendimento motorio e soprattutto di utilizzo del linguaggio al fine di promuovere lo sviluppo di abilità sportive, delinea tre possibili conseguenze se non saremo in grado di limitare il numero di informazioni comunicate al nostro atleta. Secondo l’autore non dovremmo andare oltre un suggerimento per ogni azione intrapresa dal giocatore. Il suo concetto si esprime nella citazione “One cue per rep”, ovvero un solo suggerimento alla volta.
Nel caso in cui andassimo oltre, forzati dalla smania di voler trasmettere informazioni atte a modificare il comportamento di chi stiamo allenando, potremmo incorrere in una di queste tre possibili conseguenze:
1) a causa dell’eccessivo sovraccarico di informazioni, i giocatori ignoreranno tutto ciò che abbiamo detto e si concentreranno su qualcos’altro;
2) cercheranno, sforzandosi, di concentrarsi su tutto simultaneamente, senza successo;
3) sceglieranno il punto più interessante, o l’ultimo, su cui concentrarsi.

Nessuna di queste tre vie conduce nella direzione di una comunicazione efficace che possa contribuire al miglioramento non solo dell’esecuzione dell’abilità motoria in quello stesso istante (performance) ma anche, e soprattutto, del suo reiterarsi nel lungo periodo (apprendimento). (Abbiamo trattato la differenza tra performance e apprendimento nell’articolo “PERFORMANCE & APPRENDIMENTO: AMICI O NEMICI?“)

UNA LUCE NELLA STANZA BUIA

Attraverso l’utilizzo di un’analogia, potremmo definire la nostra memoria a breve termine come una stanza buia, di dimensioni definite, e l’attenzione come il riflettore che utilizziamo per illuminarla. Questa stanza, tuttavia, non può contenere molte informazioni e, ancor meno, è la quantità a cui possiamo prestare attenzione ” (N. Winkelman, 2020).

“Less is more” potremmo dire. Gli allenatori per riuscire a sviluppare una buona comunicazione, che abbia come obiettivo lo sviluppo di una performance migliore e di un apprendimento più efficace, dovranno fornire abbastanza informazioni per far sì che l’atleta possa progredire nell’acquisizione dell’abilità, ma nemmeno troppe per impedire che queste “fuoriescano” dal perimetro della memoria a breve termine.

TRE TIPOLOGIE DI MEMORIE

Possono essere di vario tipo le memorie che come allenatori ci prefiggiamo di costruire nel bagaglio dei nostri atleti. Sempre Nik Winkelman, all’interno del suo ultimo libro “The language of coaching”, ne definisce tre. La prima “sport knowledge” ovvero “conoscenza dello sport” si riferisce al contesto nel quale l’abilità motoria è eseguita. In questo caso il contesto è inteso come tutto ciò che caratterizza lo sport di riferimento, le regole, le strategie di gioco, la comprensione delle tattiche individuali e/o di squadra. Questo tipo di conoscenza, pur non essendo direttamente rappresentativa dell’abilità motoria, ne vincola il suo sviluppo ponendo dei limiti alla sua possibilità di espressione.
La seconda tipologia di memoria viene definita “motor-skill knowledge” ovvero “conoscenza dell’abilità motoria” e si riferisce alla conoscenza diretta di come deve essere eseguita un’abilità; include quindi le informazioni che riguardano il processo e il risultato del movimento, quella che gli allenatori normalmente definisco la “tecnica”. Fanno parte di questa categoria tutti i suggerimenti e i consigli che comunichiamo quando cerchiamo di modificare un comportamento motorio.
Entrambe queste memorie si definiscono “esplicite”. Ovvero costituiscono quella parte di memoria a breve termine, definita per l’appunto “esplicita” che richiama informazioni acquisite con consapevolezza, attraverso un controllo cosciente.
La terza tipologia di memoria Winkelman la definisce “motor-skill execution”, ovvero “esecuzione dell’abilità motoria”, e si riferisce alla modalità di esecuzione accurata dell’abilità all’interno del contesto in cui deve essere sviluppata. Si pensi a questo tipo di conoscenza come a memorie motorie (pattern motori) che emergono grazie all’apprendimento.
Quest’ultima tipologia di memoria costituisce invece la parte “implicita” della nostra working memory, che è innescata dalla conoscenza esplicita delle abilità motorie attraverso la pratica, e stampata sulle regioni inconsce del cervello.

FOCALIZZARE L’ATTENZIONE

Quando si vuole alzare il livello di concentrazione la strategia migliore non è “liberare” la mente. Anzi, al contrario bisogna vincolarla, ovvero focalizzarla su qualcosa di preciso. Se è vero che il top della performance si ottiene con il top della concentrazione, allora è necessario che si consideri importante dove e come focalizzare l’attenzione.
La letteratura internazionale oggi è concorde nel ritenere più opportuno focalizzare l’attenzione degli atleti durante la performance all’esterno del proprio corpo, quindi sul risultato del proprio movimento, piuttosto che all’interno, ovvero sul movimento stesso.
(Abbiamo discusso dell’importanza del focus esterno nell’articolo “CORREGGERE PER MIGLIORARE“)

IL PARADOSSO DELL’ELEFANTE

Mentre cerchiamo di attuare una modifica sulla tecnica del nostro atleta, attraverso un suggerimento, è probabile che quest’ultimo debba essere il meno tecnico possibile. Questo per quanto paradossale possa sembrare conferma quanto detto precedentemente in merito alla necessità di focalizzare l’attenzione esternamente. Ogni volta che invece poniamo attenzione sul movimento, quindi diamo consigli squisitamente tecnici legati a come e dove devono essere posizionati gli arti o il corpo stesso, è come se impedissimo l’auto-organizzazione del movimento da parte dell’atleta.

Quello che si ottiene focalizzandosi sul micro, si perde nel macro” (N.Winkelman)

Questa citazione dell’autore evidenzia come sia deleterio dettagliare eccessivamente il suggerimento rivolto al giocatore, a maggior ragione nel momento in cui questo sia rivolto internamente.
“Più ti avvicini a un elefante, più è difficile sapere che stai guardando un elefante”. Questo paradosso, illustrato nella figura 1 che rappresenta i sei ciechi e l’elefante, conferma quanto avvicinarsi ad un dettaglio in maniera eccessiva spesso ci faccia perdere il quadro generale delle cose, deviando la nostra direzione verso traiettorie sbagliate.

Figura 1. I sei ciechi e l’elefante. Ognuno di essi si fa un’opinione diversa di cosa assomigli ad un elefante. Per qualcuno l’elefante assomiglia ad una fune per un altro ad un albero, per un altro ancora ad una muraglia. Ognuno di essi, essendo troppo vicino all’elefante identifica una somiglianza che in ogni caso si rivelerà errata.

L’ARTE DI ALLENARE

Allenare è un’arte che si basa sulla scienza” (Raymond Verheijen).

Devo ammettere di essere particolarmente d’accordo con questa affermazione del metodologo olandese di fama internazionale. Un’arte. Perché allenare è inventare, è trovare una soluzione nuova grazie ad un’idea, ad un’intuizione, è vedere qualcosa che non c’è ma che ci sarà. Però questo è davvero un esempio molto pratico di come quest’arte possa sfruttare la ricerca scientifica per applicarsi con maggiore efficienza. Se come allenatori vogliamo progredire, migliorare le nostre competenze, possiamo e probabilmente dobbiamo utilizzare le informazioni che la “scienza” ci fornisce, per costruire un “nostro modello” che sia coerente con quanto oggi abbiamo la possibilità di conoscere.
Parlare troppo significa stressare eccessivamente la memoria a breve termine che fallirà nel momento in cui questa sua limitata capacità verrà superata. Dare suggerimenti che si riferiscono a come muovere il proprio corpo limita l’esplorazione autonoma di colui che apprende.
Una comunicazione efficace che si pone l’obiettivo di migliorare l’acquisizione di abilità dovrebbe contenere poche informazioni e dirigerle esternamente.

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2 Commenti. Nuovo commento

  • Fernando Lower
    12 Febbraio 2021 23:51

    Ottimo Articolo, Se non sappiamo, come, quando, dove e quanto comunicare sarà durissimo poter trasmette le conoscenze ed offrire gli strumenti giusti in modo adeguato ed efficace.
    Grazie Alberto Articolo 🔝

    Rispondi
  • È interessante come anche gli aspetti comunicativi siamo riconducibile al quadro epistemologico delle teorie ecologiche e dei sistemi dinamici, “ciò che si ottiene focalizzandosi nel micro si perde nel
    Macro” mi ricorda “Il tutto è molto più della somma delle singole parti”.
    L’ARTE dell’allenatore credo sia proprio nel gestire la non linearità dell’apprendimento. Contestualizzarsi per poi applicare le leggi del motor learning, viceversa sperimentare, intuire, per poi confermare attraverso ricerche teoriche.
    Complimenti per il blog contenuti e esposizione di alto livello!

    Rispondi

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