PERFORMANCE & APPRENDIMENTO: AMICI O NEMICI?

“Un topo sazio non cerca il cibo ma sa dov’è”

Nella visione comune di qualsiasi allenatore quando un proprio giocatore esegue correttamente un gesto durante l’allenamento nasce la convinzione che sia migliorato. Esercitarsi con un’alta percentuale di realizzazione dà soddisfazione all’allenatore il quale manifesta la ferma certezza che questa sia la strada corretta per il suo miglioramento. Anzi, se dovesse notare che l’esercitazione non procede correttamente a causa degli errori dei propri giocatori, ecco che la prima idea è quella di cambiarla, modificarla affinché i giocatori eseguano correttamente.
L’allenamento delle abilità tecniche è spesso ricercato senza la presenza di errori. Viene chiesto ai giocatori di “non sbagliare mai”.

Ma siamo certi che questa sia la strada da percorrere? Siamo così sicuri che performance e apprendimento vadano a braccetto? “Fare giusto” significa davvero migliorare?

Pubblicata nel 2015 sulla rivista internazionale Perspectives on Psychological Science, la review degli autori Nicholas C. Soderstrom and Robert A. Bjork, intitolata “Learning Versus Performance: An Integrative Review” analizza questo controverso argomento, troppo spesso dimenticato, relativo alle differenze che esistono tra performance e apprendimento.

DISTINGUIAMO PERFORMANCE E APPRENDIMENTO

All’interno della review gli autori definiscono cosa dovrebbe essere inteso per performance e cosa per apprendimento. Performance è da intendersi come una fluttuazione temporanea del comportamento o della conoscenza misurata durante o appena dopo il processo di acquisizione. Quando invece si parla di apprendimento ci si riferisce a cambiamenti relativamente permanenti nel comportamento o nella conoscenza che ne supportano la conservazione a lungo termine e la loro trasferibilità.
Cambiamenti a breve termine, spesso influenzati dall’allenatore e dal suo comportamento, sono ascrivibili alla performance, mentre cambiamenti a lungo termine che possono essere espressi indipendentemente dalla presenza dell’allenatore caratterizzano l’apprendimento.

La distinzione tra apprendimento e performance è cruciale perché ora esistono prove empiriche schiaccianti le quali dimostrano che un apprendimento considerevole può verificarsi in assenza di qualsiasi miglioramento delle prestazioni e, al contrario, cambiamenti sostanziali nelle prestazioni spesso non si traducono in cambiamenti corrispondenti nell’apprendimento.” (Robert A. Bjiork)

L’APPRENDIMENTO LATENTE

Parecchie sperimentazioni hanno dimostrato effetti diametralmente opposti tra performance ed apprendimento, verificando che le condizioni che producevano il maggior numero di errori durante l’acquisizione erano spesso quelle che producevano un grado maggiore di apprendimento.

Viene definito apprendimento “latente” poiché può non manifestarsi immediatamente durante il processo di acquisizione ma, per diverse motivazioni, si manifesta in un momento successivo.
L’esperimento storico più famoso sull’apprendimento latente fu quello di Tolman e Honzik del 1930 (Introduction and removal of reward, and maze performance in rats) effettuato sui topi. Tre gruppi di topi furono messi all’interno di un complesso labirinto per 17 giorni. I topi del primo gruppo (No Reinforcement) una volta raggiunta la porta per uscire dal labirinto vennero semplicemente lasciati uscire, senza nessuna ricompensa. Quelli invece appartenenti al secondo gruppo (Regular Reinforcement) ogni volta raggiunta la porta di uscita vennero premiati con del cibo, il loro risultato fu così rinforzato con una ricompensa. Il terzo gruppo di topi invece non fu mai premiato fino al giorno 11, dopo il quale, al pari del secondo gruppo, venne premiato con del cibo ogni volta che riuscì nell’intento di raggiungere la porta di uscita (Delayed Reinforcement). I risultati dell’esperimento sono riportati nella figura 1.

Figura 1. Immagine tratta da: “Learning Versus Performance: An Integrative Review” N.C. Soderstrom and R.A. Bjork, 2015

Come ci si poteva aspettare il gruppo di topi che mostrò meno errori fu quello premiato regolarmente, al contrario del gruppo che non ricevette mai alcuna ricompensa. Fino all’undicesimo giorno il terzo gruppo di topi mostrò lo stesso andamento nelle performance del primo gruppo, quello che come lui non venne mai premiato al momento del raggiungimento dell’uscita dal labirinto. Come mai già dal dodicesimo giorno, nel cominciare a ricevere la ricompensa, questo terzo gruppo di topi iniziò a mostrare un netto miglioramento della performance, al pari del gruppo di topi regolarmente premiato? Questa è una prova molto chiara di quello che viene definito dagli autori “apprendimento latente“. Anche quando le prestazioni erano più scadenti (maggior numero di errori) i topi del terzo gruppo stavano di fatto apprendendo come uscire dal labirinto, ed a partire dal dodicesimo giorno hanno iniziato a mostrarlo poiché motivati da un fattore esterno, in questo caso, il famigerato e tanto desiderato cibo.

Nel 1932 sempre lo stesso Tolman, nello studio intitolato “Purposive behavior in animals and men” dimostrò come un topo sazio lasciato libero di esplorare un labirinto contenente delle scatole di cibo nascoste non mostrò segni di apprendimento, di comprensione dello spazio intorno a sè. Quando lo stesso topo, questa volta affamato, venne lasciato libero nel labirinto, dimostrò invece di aver appreso perfettamente la strada per il raggiungimento del cibo. Il topo sazio sembrò non aver appreso nulla durante le sue esplorazioni mentre, al contrario, imparò molto bene la struttura del labirinto, ma il suo “apprendimento latente” fu oscurato da un fattore importante di performance: la mancanza di motivazione.

In questo ed in tanti altri esprimenti viene dimostrata la presenza di apprendimento anche in assenza di performance. Vediamo ora invece qualche esempio del contrario, ovvero quando un miglioramento della performance di fatto impedisce un apprendimento efficiente a lungo termine paragonato con le condizioni in cui invece si verifica un maggior numero di errori.

L’INTERFERENZA CONTESTUALE

In questa direzione sono famosi gli studi che hanno valutato gli effetti dell’organizzazione dell’allenamento sull’efficacia dell’apprendimento. Quando l’obiettivo è migliorare diverse abilità motorie, normalmente si possono seguire due strade: quella di ripetere costantemente lo stesso gesto prima di passare ad un altro (pratica per blocchi), oppure quello di inserirlo all’interno di una struttura di allenamento più mista e variabile che contestualmente richieda l’espressione di più abilità (pratica random). La letteratura internazionale è d’accordo sul definire più efficiente per la performance (miglioramento verificato sul breve-termine) la pratica per blocchi, mentre per quanto riguarda l’apprendimento a lungo termine viene indicata come la strategia più efficiente la pratica random.

Oltretutto la pratica random sembra avere una più alta trasferibilità nei confronti di altre abilità simili, a differenza della pratica per blocchi che sembrerebbe costruire apprendimenti più rigidi e meno trasferibili.” (J. B. Shea and Morgan, 1979).

Viene definita interferenza contestuale, ovvero l’effetto che sembra avere il dover apprendere più compiti contemporaneamente, che costringe l’atleta ad un carico di lavoro superiore nell’immediato. Questo carico maggiore sembrerebbe essere la causa del peggioramento immediato della performance, ma che consentirà un apprendimento di più alto livello a lungo termine, garantendo una successiva maggiore stabilità nella performance.

L’IMPORTANZA DELL’ERRORE

Nik Winkelman nel suo libro “The Language of Coaching” descrive due condizioni fondamentali che devono verificarsi affinché si manifesti un apprendimento. Secondo l’autore per prima cosa colui che apprende deve essere interessato, motivato all’apprendimento. Di questa condizione, banale nella sua esplicazione, facciamo esperienza quotidianamente, dove siamo attratti costantemente dalle cose che più ci interessano. Come seconda condizione fondamentale l’autore pone il fatto che ci sia qualcosa da apprendere. Anche questo concetto sembra banale, ma probabilmente non lo è. Apprendimento significa miglioramento, significa aumentare la propria competenza con abilità nuove. Se ripetiamo gesti già appresi difficilmente possiamo pensare di aumentare il bagaglio delle nostre competenze. Di per sè potremmo dire che è proprio nell’errore che si manifesta il nostro processo di miglioramento, poiché è proprio quell’errore che ci spinge a modificare il nostro comportamento con l’obiettivo di raggiungere l’outcome di performance con maggiore successo. Abbiamo quindi la necessità di sbagliare.

Viene definito dagli autori Mark A. Guadagnoli e Timothy D. Lee “Optimal challenge point, ovvero punto ottimale di sfida in cui il giocatore procede verso l’apprendimento. La difficoltà di un compito, stabilita dal livello di abilità già raggiunte dall’atleta e dalle condizioni in cui questo compito deve essere svolto (livello di difficoltà funzionale), determinerà l’efficienza di questa pratica al fine di costruire un apprendimento stabile e duraturo nell’atleta stesso.
Un compito deve prevedere, per spingere il giocatore verso un maggiore apprendimento, una certa quantità di informazioni che risultano essere sfidanti al punto giusto. Un compito troppo facile, che di conseguenza presenterà un basso numero di errori, non sarà sufficiente a produrre un apprendimento stabile ed efficiente nell’atleta. Questo principio, definito “optimal challenge point” è riassunto nella figura 2.

Figura 2. Immagine tratta da: “Challenge Point: A Framework for Conceptualizing the Effects of Various Practice Conditions in Motor Learning” Journal of Motor Behavior, 2004 Mark A. Guadagnoli, Timothy D. Lee

La figura illustra quattro situazioni differenti determinate dal diverso livello di abilità già possedute dagli atleti (beginner, intermediate, skilled, expert) i quali raggiungeranno questo punto ottimale di sfida su quattro livelli diversi di difficoltà del compito.

L’EFETTO DELL’ALLENATORE

Quando insegniamo un’abilità ai nostri giocatori è piuttosto comune guidare fisicamente gli atleti verso il risultato che desideriamo. La nostra intuizione ci suggerisce che questo tipo di istruzioni siano benefiche per colui che deve imparare; infatti parecchie ricerche hanno dimostrato che guidare i giocatori riduca gli errori di performance durante il processo di acquisizione rispetto a quando i giocatori vengono lasciati riprodurre l’abilità senza la guida diretta dell’allenatore (incoraggiati a provare da soli a trovare la soluzione). Il problema è che quando invece si procede a verificare l’apprendimento a lungo termine, ovvero quando la guida esterna dell’allenatore non può essere riprodotta, si verifica l’esatto contrario. Praticare l’allenamento senza la guida diretta dell’allenatore conduce verso apprendimenti più stabili e duraturi.
Fondamentalmente, di nuovo, si verifica che una migliore performance (ridotto numero di errori) si tramuta successivamente in un apprendimento a lungo termine di più basso livello.

CONSIDERAZIONE FINALI

L’argomento è complesso e merita di certo ulteriori approfondimenti. Il concetto di maggiore evidenza ritengo sia la necessità di prevedere l’errore come parte fondamentale del processo di crescita. Quando sbagliamo, e ci accorgiamo di sbagliare (più importante ancora dell’errore è il feedback sull’errore), il nostro organismo cerca soluzioni diverse per il raggiungimento dello scopo. Queste strade diverse sono quelle sinergie con le quali N. Bernstein definì le strutture coordinative; sbagliando il nostro sistema migliora la sua coordinazione, la sua strategia per raggiungere il proprio fine. È proprio in quei momenti che avviene il cambiamento che poi si consolida nell’esecuzione corretta. Ecco che allora è proprio in questa alternanza tra errori ed esecuzioni corrette che si costruiscono gli apprendimenti più stabili e duraturi.

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3 Commenti. Nuovo commento

  • Piersandro Mazzoleni
    15 Dicembre 2020 11:40

    Soprattutto nei giovani calciatori è fondamentale trattare l’errore come un’opportunità.
    Spesso, soprattutto in società dilettantistiche, il tempo è poco e si tende quindi a correggere l’errore per velocizzare l’apprendimento, anziché lasciare che l’atleta trovi autonomamente la strada per risolvere il “problema”.
    Le motivazioni interne (passione, ecc..) sono poi un “motore” eccezionale e molto più durature rispetto a quelle esterne (premi ecc…) e, guarda caso, le trovo in modo più accentuato nei calcatori “più pronti”.
    Ottimi spunti come sempre.

    Rispondi
  • Fernando Martin Lower
    15 Dicembre 2020 11:46

    Ciao Alberto, da questo argomento mi viene da dire che sia la motivazione “il pane” per l’apprendimento, notare e percepire in un’atleta questo interesse e predisposizione al miglioramento è per gli allenatori fondamentale, deve essere la fonte d’inspirazione per mantenere accesa questa fiamma, dando all’atleta gli strumenti necessari per la sua crescita, dentro queste motivazioni si generano le radici che lo faranno crescere e migliorare. Grazie

    Rispondi
  • Nell’apprendimento è fondamentale la capacità di saper segmentare il corpo, distribuendo in modo armonico il centro di massa.
    Nel gesto della corsa così come in quello del lancio è fondamentale saper distribuire la giusta quantità massa corporea ( organizzazione ideomotoria) in ogni fase dello schema proposto. A tal fine ,la correzione dell’errore può essere un input ,ma non deve assolutamente frustrare l’allievo e renderlo schiavo ,succube dell’iper_correzione .

    Rispondi

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