SPECIFICITÀ E CONTESTO-VISIVO: UN ESEMPIO DAL BASKET

Teaching Sport Skills THE POWER OF CONTEXT

In questo articolo vorrei portare in evidenza un concetto molto interessante sviluppato da alcuni autori riguardo alla specificità degli apprendimenti, ovvero quello dell’ipotesi del contesto-visivo.
Dopo una breve introduzione sul concetto di percezione visiva legata al movimento andremo ad analizzare uno studio interessante proposto dal gruppo di ricerca di A. Schmidt  presso l’Università della California a Los Angeles e pubblicato sul Journal of Sport and Exercise Psychology nel 2008.

Quando si parla di specificità si affronta un argomento molto complesso che richiede l’analisi di diverse componenti del movimento. Frans Bosch definisce la specificità di un movimento (che poi si riflette nella sua trasferibilità) su cinque dimensioni, una delle quali riguarda quella percettivo-sensoriale. All’interno di questa dimensione ritroviamo la percezione propriocettiva delle forze, delle posture, dei movimenti, e anche la percezione dell’ambiente circostante.
L’ambiente circostante è caratterizzato da due tipologie di informazioni, quelle “vuote” che devono essere processate dal cervello per far si che acquisiscano di significato, e quelle che invece possiedono già un significato e sono percepite grazie a quella che viene definita “percezione diretta”, attraverso processi automatici ed inconsapevoli.

LA VIA DEL COSA E LA VIA DEL DOVE

Le visualizzazioni di oggetti che devono essere convertite in percezione nel cervello vengono solitamente definite “il cosa” del processo d’informazione. Questa via ci consente di riconoscere gli oggetti attraverso il flusso ventrale della corteccia visiva. Oltre al “cosa” esiste anche “il dove” dell’informazione, l’informazione del movimento, che invece è processata dal flusso dorsale della corteccia visiva.
Quello che sorprende è quanto le due vie siano effettivamente separate. Il “cosa” dell’informazione viaggia lungo la via parvocellulare, mentre quella del “dove” lungo quella magnocellulare. Il risultato di questa distinzione nelle vie del processo è che vi sia una significativa differenza tra i due flussi d’informazione.

Il “cosa” dell’informazione viene percepito consapevolente, mentre questo è in parte impossibile nel caso del “dove” dell’informazione, che è processato inconsapevolmente. (F.Bosch)

La via del “dove” è ultimamente conosciuta anche come la via del “come”, un termine che enfatizza la forte correlazione tra le informazioni visive sul movimento e la progettazione del movimento automatizzato controllato inconscio.

LE INFORMAZIONI DELL’AMBIENTE CHE GIÀ INCLUDONO LE INFORMAZIONI

Il cuore della teoria della percezione-diretta (J. Gibson) riguarda il fatto che nel “flusso ottico” (il complesso spostamento della luce nel campo visivo come risultato del movimento relativo) è già incluso il significato della percezione e quindi non necessita di un ulteriore sforzo del cervello per processare l’informazione, creando una connessione diretta tra la percezione e l’azione (Teoria delle affordance: Leggi l’articolo ALLENARE LE AFFORDANCES). Proprio come il “dove” dell’informazione, la percezione-diretta dell’informazione è principalmente processata inconsapevolmente.

LO STUDIO DI SCHMIDT

Pubblicato nel 2008 sul Journal of Sport and Exercise Psychology dal titolo: “Especial Skills: Specificity Embedded Within Generality”, questo articolo affronta lo spinoso e sempre molto acceso confronto tra il concetto di generalità e specificità nelle teorie dell’apprendimento e del controllo motorio. Da sempre esiste questa dicotomia tra le teorie che sostengono l’esistenza di modelli generali di movimento dai quali poi attingere per lo sviluppo di abilità più specifiche, e le teorie che invece identificano nella specificità il processo migliore per l’acquisizione di abilità.

Nella parte iniziale dello studio vengono presentate due ricerche effettuate su giocatori di basket che identificano una caratteristica molto importante dell’apprendimento, ovvero la specificità del contesto che determina i comportamenti. La prima ricerca è stata effettuata su giocatori maschi della NCAA (Schmidt, Lee, & Young, 2005) e consisteva nel farli tirare a canestro da distanze sempre maggiori, comprese tra 9 e 21 piedi. La tipologia di tiro che veniva richiesta era quella che prevedeva entrambi i piedi a terra, tipica del gesto del tiro libero. L’ipotesi di partenza era che all’aumentare della distanza sarebbe aumentata la percentuale di errore, ed in effetti questo si verificò puntualmente. L’aspetto interessante della ricerca è che alla distanza precisa di 15 piedi, quella del tiro libero (gesto tecnico molto ripetuto nel gioco del basket poiché previsto dal regolamento) il valore ottenuto si discostava da quella che era la previsione attesa, dimostrando un valore “anomalo” rispetto alle altre distanze che invece rispettavano la predizione (vedi figura 1).

Perché succede questo? L’ipotesi degli autori fu quella appunto di un adattamento specifico a quel tipo di gesto, grazie alle innumerevoli ripetizioni effettuate durante la quotidiana pratica della disciplina.

Figura 1. Immagine tratta da: “Especial Skills: Specificity Embedded Within Generality” A.Schmidt, 2008

La seconda ricerca presentata nella prima parte dell’articolo (Keetch et al., 2005) fu condotta invece su giocatrici femmine sempre di alto livello in cui gli autori, sulla base dei risultati del precedente studio, volevano verificare se al variare della tipologia di tiro, in questo caso inserendo un salto durante l’esecuzione, si verificasse la stessa cosa vista precedentemente. Ripeterono quindi l’esperimento facendo tirare le giocatrici sia in modalità “tiro libero” che in modalità “tiro in sospensione”.
Nella figura 2 notate quello che si è verificato. Solo nella modalità di esecuzione con i piedi a terra si verificò nuovamente questa differenza rispetto alla predizione, dimostrando un’altra volta la specificità di questo apprendimento che solo se eseguito in quel preciso modo manifestò un risultato maggiore grazie alle numerose volte che è stato praticato. L’inserimento di una variazione come quella del salto impedisce alle giocatrici di attingere a quello specifico apprendimento e sfruttare l’abilità speciale del tiro dai 15 piedi.

Figura 2. Immagine tratta da: “Especial Skills: Specificity Embedded Within Generality” A.Schmidt, 2008

CHE FINE HA FATTO IL MODELLO GENERALE DI MOVIMENTO?

Capite bene che questi risultati rendono difficile la vita a tutte quelle teorie che tendono a considerare l’esistenza di un modello generale di movimento dal quale poi si specializzino alcune forme di esso. In questo caso la dimostrazione del fatto che una semplice variazione come la presenza di un salto durante il movimento abbia di fatto annullato “l’esperienza” di quella specifica tipologia di tiro, ci porta a considerare molto difficile la trasferibilità tra due gesti diversi, anche solo per qualche dettaglio, figuriamoci per quelli molto diversi tra loro.
Se esistesse uno schema di movimento generale del “tirare a canestro”, o addirittura semplicemente del “lanciare” diventerebbe difficile spiegare i risultati appena mostrati.
Questi risultati suggeriscono che anni di pratica sulla linea del tiro libero producono un’abilità che ha uno specifico vantaggio di controllo del movimento a quella particolare distanza, che fornisce poco o nessun vantaggio rilevabile per qualsiasi altra distanza, indipendentemente dalla sua vicinanza alla linea di tiro libero.

L’IPOTESI DEL CONTESTO VISIVO

Ora le spiegazioni potrebbero essere due sul perché si sia manifestato questo specifico apprendimento. Una che potremmo definire “ipotesi dei parametri appresi”, ovvero il fatto che gli atleti avendo ripetuto molte volte in carriera questo gesto specifico abbiano imparato esattamente la gestione dei parametri di movimento per eseguirlo al meglio (quantità di forza, velocità della palla, velocità di estensione delle braccia, grado di flessione delle ginocchia, ecc….).
L’altra spiegazione invece la definiamo “ipotesi del contesto visivo”, ovvero il fatto che questo specifico apprendimento dipenda dall’aver sviluppato una comprensione del contesto estremamente precisa riguardante quindi la presenza del tabellone, l’angolo di visuale rispetto al canestro, e tutto quello che riguarda la visione da quella specifica distanza in quel punto specifico del campo da basket.
Come fanno gli autori a stabilire quale delle due ipotesi sia la più probabile?
Conducono uno studio in cui a delle giocatrici di basket di alto livello viene chiesto di tirare a canestro dalla distanza di 15 piedi ma da diverse angolature, non solo da quella del tiro libero (90° rispetto al canestro). Le giocatrici dovranno tirare a canestro da 3 angolature diverse a sinistra (45°, 60°, e 75°) e tre angolature diverse a destra (105°, 120°, e 135°) dal canestro. Se fosse confermata l’ipotesi dei parametri appresi non si dovrebbero registrare differenze poiché essendo la distanza la medesima, anche i parametri restano gli stessi. Se fosse invece confermata l’ipotesi del contesto visivo dovremmo aspettarci dei risultati diversi poiché a quelle angolature cambierebbero le informazioni visive percepite dalle giocatrici durante l’esecuzione del tiro.

I risultati sono mostrati nella figura 3. Soltanto nella posizione dei 90° rispetto al canestro, quella cioè specifica del tiro libero nel basket si registra un performance migliore di quella predetta, dimostrando come non sia esistente di per sé un’abilità legata ai parametri del movimento (aver appreso quanta forza, quale velocità, ecc) ma invece un’abilità estremamente legata alla posizione in campo ed alle informazioni disponibili da quella specifica posizione.

Figura 3. Immagine tratta da: “Especial Skills: Specificity Embedded Within Generality” A.Schmidt, 2008

CONCLUSIONE

Questo studio ci da conferma di quanto nella matrice di specificità sia presenta una dimensione di carattere percettivo-sensoriale. Quando vogliamo allenare qualcosa di “specifico” non possiamo non considerare il contesto nel quale stiamo riproducendo quel gesto, non possiamo non considerare le informazioni visive a disposizione dell’atleta come un elemento fondamentale dell’apprendimento. Non esistono lavori specifici fatti in zone di campo diverse da quelle reali, con distanze diverse da quelle reali, in posizioni di campo diverse da quelle reali. La dimensione di specificità ci obbliga a definire “specifico” soltanto ciò che il più fedelmente possibile rispecchia le richieste a cui il giocatore è sottoposto durante la performance.

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6 Commenti. Nuovo commento

  • Buongiorno Alberto, subito i complimenti per il lavoro che hai intrapreso con questo sito.
    Molto interessanti le ricerche citate e altrettanto intelligenti le tue riflessioni sui dati riportati.
    Trovo allenanti i tuoi articoli per chi ha voglia di ri-pensare l’allenamento sportivo alla luce di informazioni scientifiche trascurate dagli addetti ai lavori e poco utilizzate sui campi e nelle palestre.
    Mi permetto di segnalare 2 testi di ricercatori italiani in linea con una visione complessa del processo di allenamento sportivo.
    – Complessità del movimento –
    Maria Vittoria Meraviglia
    – Il cervello in azione: introduzione alle nuove scienze della mente –
    Fausto Caruana, Anna M. Borghi

    Rispondi
    • Ciao Vito. Ti ringrazio non solo per i complimenti ma anche e soprattutto per i due testi che hai citato, che offrono a me e a chi segue il blog altri due riferimenti per migliorare le nostre conoscenze, ahimè sempre troppo limitate rispetto alla complessità della materia. Grazie ancora e buon lavoro!!

      Rispondi
  • Stefano Primiterra
    1 Dicembre 2020 12:54

    Complimenti Alberto.
    In parole molto semplici, inquadrato un argomento molto complesso.
    In questa direzione, sei d’accordo sull’apprendimento e la formazione allenando nella complessità e nella specificità di gioco già nelle categorie di base? Le giuste misure di campo, la presenza costante di compagni ed avversari e la grande varietà di esperienze che ciò comporta.
    Grazie e buon lavoro.

    Rispondi
    • Ciao Stefano. Grazie per il tuo commento. Sono d’accordo sull’utilizzo predominante del gioco nell’attività di base. Contrariamente a quanto spesso si pensa è proprio in queste fasi iniziali dell’apprendimento che al bambino deve essere lasciata la possibilità di sperimentare, di conoscere autonomamente, di sviluppare “conoscenza” del gioco. In fasi successive diventa a mio avviso utile inserire elementi più “analitici” utili a rafforzare competenze già acquisite. Questo non significa ad esempio che il bambino debba giocare solo a calcio. L’utilizzo di altri sport (giochi) IN AGGIUNTA a quello del calcio non può che essere uno stimolo utile al suo completamento come atleta, ma credo che la nostra attenzione in primis debba essere fatta su quanto proponiamo nell’attività calcistica, spesso troppo lontana dalla realtà del gioco e troppo direttiva in termini didattici, annullando di fatto quel processo di percezione-azione-percezione, fondamentale negli sport di squadra.
      Buon lavoro a te

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  • Ciao Alberto,complimenti per gli articoli,sempre più interessanti e appassionanti.Volevo solo curiosamente,affermare che io ,come del resto ,moltissimi altri della mia eta’,hanno appreso il gioco del calcio,nelle stradine polverose e sterrate dei cortili,,tutte quelle astuzie,,il gioco a muro,il tunnel sotto le gambe,l’aggiramento,il passaggio,il tiro in porta,il pressing,tutte cose apprese in situazione ….da grande forse ho imparato a stare in campo. Niente altro.

    Rispondi
    • Ciao Eugenio. Ti ringrazio molto per il tuo commento. La strada è stata sicuramente molto formativa. Probabilmente in quel periodo l’attività al campo di allenamento faceva da contorno, oggi invece è il piatto principale e proprio per questo va approcciato con grande competenza. Complimenti a te.

      Rispondi

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